I beni culturali nella società della conoscenza

di Fiorello Cortiana

In un modo diventato improvvisamente piccolo per la globalizzazione economica e l’integrazione nella rete digitale e fragile perché non sono più dilazionabili nello spazio e nel tempo gli effetti sui cicli naturali e sull’ecositema i “beni culturali” non hanno una funzione di testimonianza e di richiamo turistico. Le “cose immobili e mobili” secondo la definizione del Codice italiano dei beni culturali e del paesaggio del 2004 “che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico” sono beni culturali.

Con L’Agenda di Lisbona, l’Europa ha tempestivamente colto le implicazioni della società della conoscenza e si è prefissa l’obbiettivo ambizioso di essere una realtà competitiva, capace di coglierne le opportunità, entro il 2010. Proprio l’integrazione digitale e il cambiamento di produzione di valore dalla materialità scarsa e limitata all’immateriale illimitato, propone la qualità ambientale e urbanistica come un fattore costitutivo abilitante per la produzione cognitiva. Ci appare così evidente il legame tra il bene culturale materiale con il suo ambiente/paesaggio fisico e il bene culturale immateriale, con i suoi elementi culturali( lingue, dialetti, tradizioni, antropologie) e colturali (con le filiere agro-alimentari dai campi ai piatti, che disegnano il paesaggio e stimolano la dimensione organolettica) che definiscono le nostre mappe mentali e i nostri sguardi verso il mondo.

Nel 2003 l’UNESCO ha approvato la Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale e diverse Risoluzioni per l’accesso e la Condivisione della Conoscenza. Quindi un bene culturale oggi è una “memoria viva” che concorre alla produzione cognitiva. Proprio l’integrazione digitale e il cambiamento di produzione di valore dalla materialità scarsa e limitata all’immateriale illimitato, propone la relazione tra la qualità ambientale/urbanistica e quella culturale/espressiva come un fattore costitutivo abilitante per la produzione cognitiva.

Proprio la natura costitutiva immateriale del bene culturale, quando si dà come riproduzione espressiva della sua fisicità architettonico/paesaggistica, non solo non conosce la condizione di scarsità ma consente e richiede, per valorizzarsi, la sua condivisione. Un bene materiale laddove scambiato, a qualsiasi titolo: venduto, prestato, nolleggiato, regalato, determina un possesso e una mancanza; laddove usato determina un deperimento nel tempo del bene stesso. Il bene immateriale più è condiviso e meno deperisce, più è scambiato e più contribuisce, per contaminazione o per combinazione, al processo creativo.

Siamo in un momento storico di passaggio all’era digitale quindi è comprensibile che gli interessi e le pratiche che si erano definite nella società industriale e post-industriale tendano omeostaticamente a conservare le relazioni mercantili di scarsità per via normativa e regolamentare o/e financo tecnologica (vedi i DRM). Ci sono altresì esperienze imprenditoriali e pratiche commerciali capaci di utilizzare la realtà digitale connessa in rete e le sue convergenze come opportunità. E’ interessante in questo senso l’esperienza i-Pod e i-Tune con la necessaria scelta di abbandonare i DRM da parte di Apple, piuttosto che le modalità gratuite dei servizi Google o Musicovery pagati dalla pubblicità. Ma la cosa più interessante che proprio Google ha compreso e favorito risiede nel protagonismo degli utenti della rete nel produrre valore cognitivo attraverso contenuti originali, oltreché attraverso il consumo. Di più piattaforme come Face Book e My Space dimostrano che è la partecipazione collettiva in rete a costituire cil contenuto/prodotto stesso.
Rispetto a questi processi risulta insufficiente parlare di “digital divide”. La non comprensione della rete digitale come sistema di relazione socio-cognitiva e la sua riduzione a supporto di comunicazione che succede al telegrafo, al telefono, alla radio, alla televisione e al PC, mettono in luce un “cultural divide”. Manca una cultura della complessità capace di sostituire i paradigmi lineari con quelli sistemici e olistici dei contesti.

Conosco l’esperienza diretta del Ministro della Cultura e musicista Brasiliano Gilberto Gil nell’uso e nella diffusione delle licenze Creative Commons, così come l’esperienza, diffusa anche nell’Amazzonia dei “Puentos de Cultura” dove il divario digitale viene colmato con l’uso di software libero e con lo scambio e la condivisione del patrimonio culturale, sia artistico che sociale, delle comunità circostanti.

Le prospettive per il settore musicale risiedono in una capacità degli artisti di tornare ad essere oltre che dei creativi, degli artigiani tecnologici e degli intellettuali. Se possiamo ipotizzare che la modalità flat, di tassazione di un servizio o dell’accesso ai servizi, consentirà una redistribuzione agli artisti nella misura in cui le loro opere sono liberamente “scaricate”, dobbiamo pensare che oggi, grazie alle tecnologie digitali evolute, la produzione delle loro opere non richiede tutte le funzioni e le figure professionali ad esse collegate proprie dell’industria così come l’abbiamo conosciuta. Così dobbiamo pensare che la musica dal vivo, con le svariate modalità di contesto programmatico in cui si inserisce, costituirà sempre più una delle modalità di scambio del lavoro/prodotto degli artisti, laddove fino a poco tempo fa bastava la costruzione della proposta/personaggio attraverso le modalità e gli strumenti del marketing broad band che ruotava quasi esclusivamente intorno alla televisione.

L’enorme confusione legislativa è dovuta, come abbiamo visto, tanto all’incomprensione del novo contesto quanto al tentativo di ricondurlo all’interno di parametri e condizioni consolidate. Da questa situazione si uscirà se i “producer” della rete come impresa cognitiva collettiva, si riconosceranno come tali e agiranno come un blocco sociale dell’innovazione qualitativa. Avendo cioè una funzione storica di innovazione nei processi di rappresentanza e di negoziazione, quindi contribuendo a produrre le soluzioni normative e di policy pubblica più efficaci come fattori abilitanti per la società della conoscenza.

E’ evidente che se non prenderanno corpo, e anima, una nuova coscienza e una nuova consapevolezza le inerzie omeostatiche dell’ignoranza digitale e delle rendite esistenti produrranno una gigantesca entropia cognitiva, la quale non solo sarà preclusiva rispetto a potenzialità oggi impensabili, ma ci priverà anche delle possibili soluzioni a problemi altrettanto inaspettati. Non parlo solo dei virus informatici o dei possibili crash nella gestione dei sistemi informatici stessi ma anche degli equivalenti nella sfera biologica, basti pensare all’AIDS.

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